giovedì 28 luglio 2016

Dove vivo

Mi guardo intorno... Alla mia destra ho tre libri uno sopra l'altro, stranamente tutti e tre con la copertina rossa, tre rossi diversi, quello nel mezzo molto acceso, come se mi invitasse ad abbandonare il resto e a leggerlo. So che il mio stato psicofisico non è quello giusto per titoli di tale portata, ma non sono mai stata una persona che ha detto di no a qualcosa di intenso, purché sensato. Non ho mai messo da parte film, libri, musica, foto, a patto che mi dessero emozioni forti; per quanto possa fare paura è l'unico modo per sopravvivere in un mondo in cui non si può più distinguere il bisogno dall'amore.
Il libro più scuro ha sulla copertina un edificio che dista venti minuti a piedi da casa mia, il che è abbastanza inquietante visto che la trama parla di un omicidio, e di un amore... Certo che parla anche di amore. L'amore perfetto è quello con un omicidio. Com'era quella storia del nascondere i sentimenti bene quanto un cavallo sotto una conchiglia? Ho battuto i miei stessi limiti e l'omicidio sta proprio lì, nell'incanalare le emozioni che non mi appartengono più in qualcosa di creativo, nel bloccare le lacrime prima che raggiungano la bocca assetata di un sentimento che deve morire.
Ma comunque è piuttosto figo leggere libri in-cre-di-bi-li ambientati in una città che un po' odio, ma di cui non posso più fare a meno. Il terzo libro, di un bordeaux un po' più morbido, è una biografia di Bowie, me l'ha lasciata Eugenia prima di tornare in Italia più di un anno fa, ancora non sono riuscita ad arrivare nemmeno a metà, però posso prendere la Victoria line e scendere a Brixton ed essere sicura che lui ha percorso proprio quelle strade. Ne ha viste questo povero libro, ancora prima che lo cominciassi a leggere, ancora prima di finire a casa mia, una casa che condividevo con una persona che credeva di amarmi, o che io credevo di amare, ma caso volle che avessimo solo un grande bisogno l'uno dell'altra.

Di fianco al perfetto trio rosso, c'è un libro grigiastro, giallognolo forse, ma con il nome dell'autore scritto in rosso sangue, sulla copertina c'è la foto di un letto con le lenzuola insanguinate, non ho idea di cosa cazzo sia, l'ho trovato per strada e mi dispiaceva lasciarlo lì, di notte ha piovuto e io l'ho guardato ringraziarmi dalla scrivania. Magari non lo leggerò mai, però annuserò le pagine che sanno di biblioteca e di vecchi difetti, quei piccoli dettagli che non vorremmo cambiassero nelle persone che amiamo, per niente al mondo, non importa quanto male ci facciano, quanto cozzino con il nostro stupido ego o quanto vadano contro le nostre abitudini e le cose in cui crediamo. Sono i dettagli a cui ci aggrappiamo per fare il ritratto perfetto incorniciato dalla nostra solitudine, e dalla codardia. 

In mezzo all'infinità di piantine e vasetti, c'è Jimmy, una pianta che mi avevano regalato Katerina ed Arianna, mesi e mesi fa, quando ancora vivevo nel disperato bisogno e nell'ideale di amore irraggiungibile. Quando mi sono trasferita in questa casa, ho dato Jimmy a Jack, ancora non aveva nome, ma Jack ha il vizio di attribuire il nome a tutto, sembra che gli serva per ristabilire l'ordine nel suo processo neurale, ma magari è solo per cazzeggiare e io sto nuovamente iper-analizzando i comportamenti umani. Mi piace come Jack passa dall'essere un totale idiota a quello che si può chiamare un uomo di certa portata e proprio quest'ultima parte conferma la sua esistenza in quello che sono i fiori di questa piantina sgangherata. Come sia riuscito a farla fiorire, non lo so, ma ci sono due categorie di persone in grado di far fiorire un alberello senza speranza, i romantici e gli psicopatici omicidi. Se guardo Jimmy di fianco a "London Fields", quella storia sull'amore e sull'omicidio, mi pento di aver perso la chiave di camera mia. Carino come ha messo l'etichetta sul vasetto: "My name is Jimmy". Tanto per non lasciare dubbi.
Mi ha ispirato a scrivere un bigliettino sul piccolo vaso che ho lasciato in camera di Ale, c'è scritto "Please don't kill me", e contiene una kalanchoe, o comunque si scriva. Ad Ale non frega un cazzo di "Please don't kill me", infatti la piantina non ha nome, ma è ancora viva e c'è speranza che arrivi all'inverno. Ha cambiato locazione già due volte, però adesso è sul davanzale, a prendere quel poco di sole che ci possiamo permettere a Londra, devo dire che è anche l'unico punto luce naturale nell'intera camera, perché Alessio è una specie di creatura notturna con una sequenza di cose da fare in un certo modo, una sequenza che per me non ha alcun senso, ma che reputo piuttosto affascinante nella sua follia. Forse dovrei chiamare Please Don't Kill me con il nome di Dracula, o Psycho.
Effettivamente... non c'è una persona normale in questa casa, e se mettessi una pianta in camera di Dan, si trasformerebbe e prenderebbe sopravvento su tutto, o finirebbe un po' come in "Mad About You", degli Hooverphonic. Fa ridere associare "hoover" a Dan... non mi perdo in spiegazioni.

E infine, ci sono foto, foto, foto, foto su foto, foto. Io amo le foto, amo farle, amo farmi fotografare quando sono dell'umore giusto (un po' sconveniente per una modella). Sull'armadio c'è una piccola serie con Arianna, che mi sembra di arrivare a odiare talvolta, ma che in realtà amo profondamente, e mi rendo conto che il problema è solo nella mia testa. Il muro vicino al letto ha foto di gambe, schiene, mani, dettagli, quei dettagli che compongono storie mai narrate fino all'arrivo di un fruitore, perché quello che vedo io non ha alcuna importanza nel momento in cui decido di rendere un lavoro pubblico. Tra quei rettangoli contenenti quello che per me è un pezzo fondamentale del puzzle sentimentale e creativo, c'è Daria. Anche se non si vede nel viso, si capisce che è lei, senza un apparente motivo, o forse è chiaro solo per me, ma non perché ho scattato la foto io, ma perché la conosco e so esattamente quando e perché fa un passo indietro, non sempre è causa mia, ma il mio carattere ultimamente schivo non rende l'avanzata più facile. E questa città, questi amori e questi omicidi che si confondono, non aiutano me a fare chiarezza.

Ma va bene così, o andrà bene con un po' di impegno, con un po' di passione, con desiderio. Non mi rimane che salire le scale fino a camera di Ale una volta a settimana, portare avanti una collaborazione che non sarebbe nata se io fossi rimasta nel mio bisogno della persona sbagliata, controllare che Jimmy non uccida Please Don't Kill Me e che al Conte Dracula non venga la brillante idea di perdersi in una delle sue mille sequenze, perché il suo cervello non funziona a compartimenti stagni, ma è un po' come questo tempo inglese imprevedibile, di cui a volte mi lamento, ma poi capisco che altrimenti sarebbe noioso. Non so, sembra tutto giusto, come il caffè caldo in una mattina fredda, senza fretta e con poco zucchero.

martedì 21 giugno 2016

Un periodo

Aspettavo l'ispirazione. Aspettavo... aspettavo... Non mi ero resa conto di quanto effettivamente fossi all'interno dell'intero processo. Con i miei momenti di solitudine, circondata dalle persone molto simili alle sagome nere che vedevo nei momenti di crisi, ma solo con la coda dell'occhio. Come stasera, esattamente così, lentamente. Mi sentivo elastica e magnetica, ma nel senso inverso, quando giri la piastrella e appoggi alla calamite il lato opposto. Finisci per respingere tutto quello che altrimenti attireresti.
Sostanzialmente dovrei solo invertire il processo.



I miei piccoli passi si sono fusi con le scale che scricchiolano, il mio orecchio si tende di fronte allo specchio, perché intuisco un movimento familiare, felpato, ignaro. Anzi, più qualcuno a cui non importa, perché effettivamente non importa. E le conversazioni piccole, superficiali, parole che non trapassano più i muri, i sussurri che muoiono sulla punta della lingua. Cosa me ne faccio? Veramente ho avuto bisogno di questo per un periodo? Mi devo delle scuse.

Ultimamente corro, di mattina, perché mi manca l'intimità di un gesto erotico all'alba, quando sei esausto, accaldato ma coi piedi freddi. Non riesco a rimanere nel letto troppo a lungo, e il mio corpo è stanco, teso, è come se si fosse dimenticato di come fluire col respiro. I polmoni si riempiono e si svuotano, il cuore continua a battere, tutto pulsa, tutto scorre, ma non si fonde col mondo esterno, non più, rimane tutto a fior di pelle, non trapassa. Sono aperta come un libro, eppure non lascio entrare nessuno, e perché dovrei del resto? A volte non importa a me, oppure mi importa troppo, altre volte nessuno si ferma a guardare.
E così corro. Ho per lo più abbandonato le mie sessioni di yoga, ho perso la mia elasticità, in tutti i sensi. Adesso seguo il vento e corro, sempre più veloce, sempre più veloce, proprio come mia madre quando scappava dal futuro che ha comunque abbracciato. Sento l'impatto dei miei piedi con l'asfalto, l'eco che si perpetua attraverso infinite invisibili particelle che arrivano al centro della terra e poi tornano in me e si ripercuotono nell'intero sistema. Sono così viva. Non corro per scappare, non corro verso niente in particolare, sono talmente nel momento con le gambe leggermente indolenzite e le mani che si intorpidiscono col freddo, che il resto diventa solo un periodo nella mia storia, da punto a punto, e da lì un passato può anche diventare un presente.

Com'è possibile che io sia tornata a circondarmi di persone che sentono ma non ascoltano? Che parlano ma non dicono niente di interessante, niente di abbastanza. Nulla è abbastanza qui. E come tocchi un argomento diverso, come cominci a scavare, la sala si svuota, la musica si ferma invece di intensificarsi, gli occhi volgono altrove invece che incontrare i miei e un poco alla volta io muoio, o meglio, scompaio. Non voglio questo.
Mi trovo nuovamente a leggere tra le righe, sperando di non esagerare, di non inciampare nella sequenza sbagliata, di non aggiungere quello che non c'è e di non tralasciare niente. Piccoli, piccoli dettagli, un contatto velato e un volto un po' troppo vicino, l'aria che si fa densa, la circolazione che si congela in un respiro, tutto diventa fluido e incredibilmente lento, talmente lento da invertire il corso, risucchiare l'ossigeno fino quasi a implodere. Tutto si ferma. Eccolo lì, per una frazione di secondo che nella mia testa si amplifica fino a diventare un secolo, e poi riparte tutto più in fretta, un vortice interminabile e inarrestabile, io nel mezzo, persa.

Sembra una di quelle notti in cui nulla succede, ma le mani prudono, i piedi non stanno fermi, il cuore palpita, e anche se parte dal punto sbagliato della mia coscienza, è pur sempre ispirazione. Qui, adesso, silenziosa, e sola. Cosa devo fare con te? Nei gesti fermati a metà, nelle futilità quotidiane, qualsiasi cosa a cui aggrapparsi per fermare il tempo, per condividere qualcosa di futile travestito da necessità.
Eppure... va bene così.
 È la mia casa, è il mio posto sicuro in cui tornare, sono io che non me la prendo, sono io che sorrido e faccio finta che non mi importi, che ce la posso fare, che sto bene, perché io sto bene. Sono le poche parole e ancora tanti piccoli, piccoli dettagli, che forse gli altri non notano, ma le persone come me sì, fino a farsi del male, ma mai tirarsi indietro.

Perché mi scomodo fin dall'inizio? Perché mi importa? Perché con tutto ciò che posso provare non agisco di conseguenza? E perché fanno tutti finta che l'elefante non sia in questa fottuta stanza? 
Ed eccomi qui, ed eccoci qui, e come quell'incredibile musicista una volta disse "parli come se io non ci fossi più". E l'elefante nella stanza sono io.


lunedì 25 aprile 2016

Berlino

Due giorni fa percorrevo la Kottbusser Damm e mi sentivo completa, ciò che ho vissuto o ciò che mi aspettava non aveva importanza e ho avuto questo senso di euforia leggera, quasi impercettibile, eppure reale... Molto più reale di tutto quello che mi sta succedendo da un mese a questa parte. Mi fondevo con la gente e niente aveva importanza, solo la musica nelle orecchie, il sole, il momento che mi sono permessa di vivere al 100%. Era tanto che non mi sentivo così in una città. Era tanto che non mi sentivo a casa in una città nuova.

È stato un viaggio folle... Mi sembra di essere qui da un mese, e invece è passata solo una settimana, domani torno a Londra, un posto che percepivo come casa, ma che adesso sembra così distante, come un sogno che si lascia ricordare solo a tratti al risveglio. C'è una sola cosa palpabile ad attendermi, una sola clavicola che voglio sfiorare e una serie di costole che voglio contare per assicurarmi che siano tutte al loro posto a formare una gabbia toracica in cui rimbomba un cuore irregolare che non mi appartiene, che non voglio che mi appartenga, che voglio solo ascoltare finché si rivelerà la cosa naturale da fare. C'è un intreccio di piccoli fili ricchi di rame che si arricciano tra le mie dita, ne ho un ricordo molto vivo, è come una lesione neurologica. Mi attende questa trama fitta, uniforme ed elastica al tatto, ricca ed antica alla vista. Ci sono pochi odori che mi mancano di Londra... quello della sua pelle, dei miei libri e del sidro in quel pub con i tavoli appiccicaticci.

Per il resto vorrei rimanere qui e continuare a comportarmi come se i problemi non esistessero, modellare i miei piccoli drammi giornalieri, assorbire la presenza delle persone a me care, non smettere mai di creare, non finire mai i soldi. Vorrei abbracciare Arianna e sprofondare nell'odore dell'olio di cocco, perché quando si integra con l'essenza del suo corpo la realtà si annulla e niente fa più paura, tutto scompare e la mia mente fluttua in un universo parallelo in cui sono sul treno per Tempelhof e vedo sfrecciare davanti a me Berlino a rallentatore.
Vorrei sdraiarmi ancora una volta sulla pista nera sotto il cielo azzurro, le nuvole dense, sotto vento e al freddo; accanto a un corpo caldo, ma distante, con i miei piedi protesi verso l'alto, a camminare nel vuoto, verso un futuro incerto ed eccitante. Mi piace come questa città abbia plasmato i miei amici più cari, come gli abbia spinti a evolversi partendo dai desideri sepolti da secoli di ricerche sbagliate. Mi piace come tutte queste strade dai nomi per me imronunciabili abbiano riempito i cuori delle persone che non sento mai se non sotto forma di un un'eco nell'anticamera del mio cervello. Sapevo che venire qui sarebbe stato uno scambio equo di opinioni, esperienze, di amore incondizionato dettato dalla stima e dalla consapevolezza, da un ragionamento setacciato e ridotto ai minimi termini, reso puro attraverso notti di solitudine in una città che di notte ribolle fino ad evaporare in una mattina pigra e piena di aspettative.

Sono follemente innamorata dell'energia che c'è a Berlino e so che non l'avrei percepita così intensamente se fossi venuta qui un anno fa. Non avrei camminato lungo queste strade con la sicurezza di girare nel vicolo sbagliato con tutto l'orgoglio di cui sono capace senza interpellare l'ego. Non avrei potuto fare una telefonata con un'ora di fuso orario e dire a qualcuno che sono sopraffatta dalle emozioni, dall'arte, dal vento. Non avrei avuto qualcuno che mi avrebbe ascoltato con una preoccupazione disarmante, perché probabilmente vera, profonda, sagace. Non avrei avuto qualcuno a dettarmi il termine perfetto, senza indugiare. Non avrei avuto il coraggio di parlare così apertamente alle persone che amo e che mi permettono di innamorarmi ogni mattina, o la notte fonda e compatta.
Non sarei stata così... e le città grandi non perdonano le persone prigioniere di sé stesse. Adesso sono pronta, libera, e ho una paura irrefrenabile, ma riesco a rifugiarmi negli angolini polverosi della mia anima, dove i demoni non possono più alloggiare, perché non hanno di che nutrirsi.

E dopo questa corsa al galoppo attraverso una settimana surreale e sonante mi fermo qui, alla tua scrivania, dove appoggio le dita raccogliendo un po' del tuo temperamento fluido. Guardo fuori dalla finestra e vedo una via che spesso ho letto riflessa nei tuoi occhi attraverso i tuoi racconti. Mi sdraio sul letto che mi ricorda molto la distanza che c'è tra una città Kazaka e l'altra, una steppa in cui non vi è rifugio, in cui si può solo protendersi l'una verso l'altra fino ad incrociarsi e poi proseguire nella direzione opposta, separatamente.
A causa tua, respirare è diventato come riempire i polmoni di un fumo coagulato da quella distanza incolmabile, e fa male, ogni boccata si congela in un movimento incerto. Eppure... una superficie solida è più facile da percorrere. Come le strade di Berlino.


martedì 5 aprile 2016

Ancora qui

"Sei qui, no?"
Cosa intende? Che sono arrivata fino a qui? Che sono qui con lui? Non lo so, ma gli ho creduto, di nuovo. 

Ce ne stiamo sul divano e fuori non piove, stranamente, nemmeno c'è il sole, tutto quanto ha la natura della sua affermazione. È così convinto nel dirmi che sono qui, o lì, da qualche parte, che per un attimo vacillo, deve avere per forza ragione... ma la sua personalità è così morbida e aperta che riesco a fare delle sue parole un po' ciò di cui ho bisogno.
Sì, sono qui, sono ancora qui e lo sarò fino alla mia morte. Penso ai concerti dei gruppi che amo, di quando e quanto ho pianto guardando il palco, pensando "sono qui, sono ancora qui, no?"
Ma lui mi riporta alla stanza ora un po' più cupa, cantandomi nel viso a squarciagola. "Sei di fuori", penso, "e sei qui, pure tu". Siamo qui.

Il motivo per cui tutta questa faccenda dislocata nasce è la mia insicurezza in questa vita, ora più che mai, sia qui che lì... da qualche parte. Il posto più pericolo sulla terra è il mio cervello, quindi ho provato a cercare rifugio tra le braccia di qualcuno che non mi conosce, ma che sa esattamente cosa dire, non per me, ma perché a lui probabilmente ha aiutato. E il punto è proprio questo, essere così aperti, e amare sé stessi, amarsi per quello che si è a tal punto da amare il prossimo proprio così, per quello che ha da offrirci.
La stima che provo di fronte a queste due parole, "sei qui", dette da qualcuno che non ha idea di dove cazzo andare, di cosa succederà domani, di dove questo divano ci farà approdare, è così immensa e pura da ispirarmi, negli ambiti più impensabili. Ma come perché? Perché i dubbi e le paure non hanno fatto precludere niente a questa persona, non l'hanno resa arida e vuota, perché quest'uomo ha continuato a riempire più la sua anima che l'ego, così quando tutte le luci si sono spente ha comunque continuato ad andare avanti.

E il motivo per cui mi sembra di conoscerlo da una vita è proprio questo calore che viene dall'interno, che non ha niente a che vedere con ciò che fa o che pensa, ma è la passione in sé, e lui ne è padrone, non il contrario, per questo non si spegne mai. L'affinità che percepisco è dettata dal reciproco desiderio di essere qui, ora. Vivere bene il momento vuol dire costruire bene l'avvenire, senza sforzo... Vuol dire conoscersi bene. E il mondo può fare paura quanto ti pare, non importa, perché tu sei qui, ora.


E se chiudo gli occhi e ascolto il suo cuore irregolare, impulsivo, ma sempre morbido, ovattato, e immagino che questo divano su cui siamo sia una barca, riesco a lasciare il vento fuori per qualche istante e a sentire chiaramente il mio respiro che riempie la sua gabbia toracica e ricordo che anche io sono un essere passionale e sono qui, no?





lunedì 4 aprile 2016

Via da qui

Ho aspettato questo momento così a lungo, fremevo, volevo scrivere qui, mi mancava il mio rifugio virtuale, questo luogo in cui non ci sono regole, in cui i nomadi approdano e i legami si creano stabili, elastici. Questo giardino segreto che al posto degli scoiattoli e delle lepri ha gli accenti giusti, i verbi corretti, le parole scelte con cura ma senza essere troppo ricercate.
Ecco cosa bramavo... ma ora che sono qui, sono persa. 

Salto da una virgola all'altra, espiro e muoio, inspiro e rinasco, e oggi non basta niente per sentirmi abbastanza forte. Questa sera vorrei sentirmi viva, vorrei affidarmi alle luci della città, a cose concrete, e non agli esseri umani così effimeri, insicuri. Vorrei provare a essere una marea, qualcosa che torna, ma a cui non importa. Mi limito invece a queste ondate di passione e amore che si interseca col fumo di una sigaretta fumata troppo in fretta. Sono così stanca, così stanca che non ho le forze di arrendermi.

Non riesco più a rifugiarmi nell'angolo più oscuro del mio cuore, non trovo la chiave, non credo di averla cercata. Sarebbe bello rannicchiarsi sotto uno di quei alberi dietro la casa della nonna, con l'odore forte di muschio e il desiderio ancora impalpabile, immaturo. Quante vite sono scivolate dalle mie mani da allora, quanti involucri ho cambiato, quanto potere ho acquisito? Non lo so... e stanotte non ricordo l'odore di nessuno di cui mi importi, perché la mia casa sono io, ma la mia pelle sembra distante, dislocata, devo averla lasciata nel letto sbagliato, accanto a un sospiro creato con troppa facilità, di fronte a una fiducia troppo sfrontata. Avrei voluto oscillare, dubitare, camminare ancora un po' sul bordo del grattacielo di una città mai visitata. 

Sono diventata un essere di luce, non posso più nascondermi nel buio, ho perso il contatto con le mie radici, ma non so volare. Mi trovo qui, di nuovo, sul pavimento polveroso di uno chalet deserto, la mia pelle è sudaticcia e i pulviscoli si fondono con l'odore del caffè freddo, si attaccano al mio collo, alle clavicole, sotto le ascelle. Adoro il profumo delle foglie secche riprodotto dalla mia mente, perché è Primavera, ma il mio cuore pompa un sangue impuro e pieno d'Autunno, il mio corpo è il letto di un fiume in piena a ridosso dell'Inverno. Non sfocia mai... sento solo questa disperazione che cresce, si innalza fino alla gola e blocca i pensieri sulla punta della lingua. Stanotte sono arsenica e niente può fermare il processo.

Devo tenere duro, devo incamminarmi verso lo specchio d'acqua al centro del deserto e vedere cosa riflette il mio volto. Non potrò trovare me stessa attraverso niente e nessuno, nemmeno attraverso la mia arte, perché io devo divenire arte, devo nuovamente toccare il fondo mettendo le paure da parte, non posso più incanalare i miei dubbi e i pensieri nervosi in visioni erotiche e retoriche, devo inglobare me stessa, implodere e lasciar colare la mia essenza su un fondo scuro, senza riflessi, per vedere cosa rimane davvero, cosa può rinascere, come posso arrendermi all'immensità di una solitudine ponderata, consapevole e totale.





lunedì 8 febbraio 2016

Essere felici col computer rotto

Il mio mac è rotto da settembre e da settembre sto utilizzando il computer di Jakub, è stata dura all'inizio condividere qualcosa che per me simboleggia il cassetto della biancheria intima, ma mi sono abituata.
Non voglio creare un post in relazione alla mia perdita (molto importante per me, per quanto non compresa dalle persone che non usano il computer come mezzo per creare -leggi scrivere-), ma voglio trasmettere il mio disagio, perché va a finire che scrivo quando nessuno mi capisce.
Ho anche pensato, piuttosto a lungo, che fosse colpa mia, che forse non ho ancora imparato a spiegarmi a voce, ma il semplice fatto è che creare le frasi in un susseguirsi di parole nel silenzio di una camera, non è come spiegare quello che ci attanaglia a voce.
Per quanto sia frustrante copiare e incollare le lettere accentate, non avendo più la tastiera italiana, ci voglio provare lo stesso, perché mi manca scrivere sul Web, mi manca trasformare la mia vita attraverso la scrittura, in modo che non necessariamente diventi accessibile, ma che comunque fluisca fuori e non solo intorno a me in un circolo vizioso.

Mi piace parlare di me, se qualcuno è interessato ad ascoltare, ma mi piace di più scrivere, improvvisamente si disegnano più opzioni per spiegarsi e se sono abbastanza astuta da evolvere il mio stile nella direzione giusta, può anche darsi che nessuno mi giudichi, perché non lascio spazio alle  riflessioni. Ciò che scrivo è diretto, per quanto velato, arriva dove deve arrivare e se non arriva, vuol dire che il lettore è nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Sto cercando di essere molto sincera con me stessa e per quanto sia una cosa che ho sempre tenuto presente, è molto difficile da mettere in atto. Il mio cervello mi induce continuamente nei meccanismi sbagliati, nei sotterfugi, cazzate prevalentemente, e lottare contro il proprio cervello, per quanto indispensabile, non è mai una cosa piacevole... anche se ritengo sia naturale.
La bugia rimane sempre sullo sfondo, come il rettangolo meno sbiadito sulla carta da parati una volta tolto un quadro. Basta guardare bene e dire la verità a voce alta nella propria testa, pronunciare quelle parole e attraversare la paura di mettersi in una situazione scomoda di cui si è perfettamente consapevoli. Perché non abbiamo paura del giudizio, nessuno oltre a noi sa cosa stiamo attraversando, eppure agiamo come se ne avessimo. Siamo solo terrorizzati di concretizzare quei pensieri retrostanti e di prenderci le nostre responsabilita verso noi stessi. Credo che una gran parte della vita sia proprio attraversare le diverse fasi della propria evoluzione spirituale, intellettuale e fisica. Io ho cominciato molti anni fa e solo nell'ultimo anno ho trascinato la roccia in cima alla montagna, per poi semplicemente lasciarla rotolare dall'altra parte.
Non mi piaceva il mio corpo, adesso mi piace. Ero spaventata, ansiosa, arrabbiata, perennemente tesa, adesso sono felice, perfettamente in pace con me stessa. Non so come sia successo, ricordo qualche passaggio sparso nella mia crescita e non credo ci sia stato il momento in cui io abbia detto “adesso basta, si cambia”, ricordo solo la salita, l'incredibile stanchezza e proprio quando ho spremuto l'ultima goccia della mia fatica e della pazienza, mi sono trovata in cima, ad osservare questo splendito panorama che è la mia vita, a debita distanza ho visto anche tante piccole tappe collegate tra di loro da percorsi tortuosi, da mostri e paludi... una specie di gioco dell'oca horror hard core.
Sono incredibilmente felice di non essere più là sotto, non ho alcuna intenzione di tornarci. E non importa quanti giorni di merda ho davanti, quanto sarà difficile e triste, io non scendo, rimango felice.
Ho semplciemente capito che essere felici non è essere perenemente sorridenti come degli idioti, ma significa mantenere la pace interiore quando va tutto a puttane, capire cosa succede dentro e intorno e agire di conseguenza, realizzare che niente è terribile come sembra, che gli artigli fuori dalla finestra non sono altro che alberi... a volte basta aspettare l'alba per rendersene conto, altrimenti basta avvicinarsi. Essere felici vuol dire anche accettare il benessere quando arriva, invece che vivere in questa continua domenica in seguito al sabato dell villaggio, quel sabato che nessuno si è goduto comunque, perché Leopardi rende tristi anche le cose felici.
Andare attraverso le proprie paure è la cosa più difficile da fare! Parlare a qualcuno aspettandosi il rigetto, buttarsi in un nuovo progetto senza capo né coda, prendere un biglietto di sola andata, alzarsi nel bel mezzo del ristorante pieno e andare in bagno (suona ridicolo, ma l'ansia è una cosa complessa e incomprensibile a chi non la prova), dire a qualcuno che ciò che sta facendo non ci rende felici, o confessare ai propri genitori che se avessi seguito il cammino che ti hanno indicato saresti sprofondato nel baratro. Ma ancora più difficile è capire i propri desideri e non lasciarsi fermare da niente per fare il primo passo. Vi diranno che la cosa non vi porterà soldi, che valete più di quello, che è solo un hobby e che ci vuole sempre un piano B; e voi... voi avete due scelte, seguire i consigli di chi non vive la vostra vita e morire dentro neanche troppo lentamente, o ammettere a voi stessi che non avete scelta e che possono andare tutti affanculo.