giovedì 25 ottobre 2012

Charin

Ho questo ricordo limpido di una giornata estiva caldissima. Intorno a me si estende il deserto per miglia e miglia e ogni tanto davanti alla macchina appaiono un serpente, un coyote o una marmotta. 
Io e mio padre non ci parliamo, perché il vento che entra dai finestrini abbassati è assordante. Poi quando ci sono così tante cose da guardare, parlare è dispersivo, inutile. 

Ho il vizio di fissare gli uomini negli occhi, potrei farlo per ore. Lo facevo con papà ed ero convinta che dietro la cornea crescessero dei girasoli. C'era questa pupilla nera e spaventosa e intorno infiniti petali che andavano a comporre l'iride. Chissà come sono adesso gli occhi di mio padre...

Il cielo è sfondato di azzurro e questo kazako folle seduto di fianco a papà sta indicando l'arrivo di un tornado da Est. Ma niente paura dice, non ci dovrebbe nemmeno sfiorare.

Non ho mai affrontato un viaggio così tanto lungo prima d'ora, non in macchina per lo meno. Ma non mi sono annoiata un attimo, perché il marrone è il mio colore preferito e il sole è ancora in grado di darmi sensazioni piacevoli. Diciamo che la previsione di una tempesta che dovrebbe coagulare il sangue bloccandone l'arrivo al cervello, c'è, ma io ancora non lo so. 

Non so ancora quanti temporali mi attendono all'orizzonte, né sospetto dell'esistenza dell'amore tra uomo e donna. Non so di essere io stessa frutto di un amore folle.

Finalmente giungiamo al limite davanti a questo varco spazio temporale incredibile, un burrone che si estende per chilometri, sembra un serpente inciso nella terra rossa come il sangue. Mi sento un parassita che sta per esplorare le vene proibite di un dio maledetto e temuto dagli uomini. Saremo dei piccoli globuli incanalati verso un'unica meta tumorale, un ritrovo di quelli come noi, diagnosticati come il male della terra. Siamo questo e io già lo so e mentre mi faccio questi viaggi, che all'età di sei anni non so descrivermi, mi rendo conto di essere da sola e in lacrime, bloccata lungo una discesa sabbiosa all'altezza di un centinaio di metri. Il sentiero non è ripido, ma sono troppo in alto e agli uomini non è dato vedere così tanto in una volta sola. Piango e chiamo papà, non so scendere. 

Mio padre, dopo aver fatto il suo dovere di uomo che ha ben pensato di estendere il suo ego creando, insieme a mia madre, un corpo completamente nuovo e cosciente, cioè io, si ritrova a portarsi appresso questo essere spaventato e biondiccio, sporco, affamato e lento. I figli sono un peso, un sacco di amore e soddisfazioni, ma fino ad una certa età sono limitati. Per mio padre non ho limiti e col senno di poi mi rendo conto delle infinite prove a cui mi ha sottoposto.
Mamma dice volevano un maschio. Ma lo realizzo solo ora, i keds, i jeans e le camice di flanella che hanno mascherato la mia femminilità fino alla fine, non sono mai stati un campanello di allarme. Sarebbe poi servito a qualcosa saperlo prima? Sono felice anche così.

Dopo svariati chilometri spalanco gli occhi alla vista di un fantasma blu, così cristallino ed indipendente da congelarmi sul posto. Deve essere il cuore, penso, deve essere il cuore del deserto. 
Un fiume che scorre all'infinito, di cui non puoi sapere l'origine, di cui non puoi prevedere la fine e così gelido da non permettere a nessuno di contaminarlo. Ringrazio la terra per aver protetto così bene una cosa tanto preziosa. Per avere questi privilegi bisogna lottare. Nella vita bisogna lottare e mi rendo conto proprio di questo nel momento in cui mi padre prende per il collo il kazako e lo affoga nell'acqua! Non riesco ancora a proferire parola e non capisco perché sangue del mio sangue stia facendo una cosa tanto violenta di fronte a un mondo così puro. Com'è possibile che un posto del genere susciti pensieri così cattivi? 
Ma mi ci vuole poco per individuare la radice del problema. Mi guardo intorno e vedo qualche cartaccia, una bottiglia di vodka e un'anguria spaccata. Credo che papà si sia incazzato per questo e nel frattempo il kazako, infreddolito ed annaspante, è diventato sobrio tutto d'un colpo.
Sono allibita, come può aver bevuto durante tutto il viaggio senza cadere poi dal burrone sfracellandosi la testa? Mi si disegnano nella testa piccoli pallini di terra umidiccia di sangue. Una pioggia kazaka super splatter polvere alla polvere cenere alla cenere. Non mi fa per niente ridere e ringrazio con gli occhi mio padre per averci evitato questo spettacolo nella previsione della via di ritorno.

A volte, oggi, a ventiquattro anni, certe cose così belle suscitano violenza anche in me. Quando vedo preservativi sotto gli alberi, bottiglie che galleggiano nei ruscelli di un tempo, radici fatte saltare per aria per affiancare la sauna ad una dacha, il sangue comincia a bollirmi surriscaldando la pelle, divento rovente e voglio uccidere. Presto non ci saranno più fiumi per i kazaki. Perché nessuno affoga i kazaki?

L'essere umano è uguale alla terra, in scala ridotta. Abbiamo il sangue, la pelle, le vene, il cuore, i polmoni. 
Perché mi rendo conto di questo a sei anni mentre un kazako di cinquanta sta sputando su anni di evoluzione?


Nel deserto ho capito due cose.
La prima è che i kazaki mi stanno sul cazzo, la seconda è che sono fiera di avere le mani sporche di terra, di una terra rossa e grumosa, piena di vermi, di ragni e di tutte le creature grazie alle quali probabilmente questo cazzo di mondo si regge in piedi.
Sono orgogliosa di essere nata in Kazakistan, sono orgogliosa delle mie origini e di quel poco che del nostro pianeta ancora rimane. E non mi azzarderò a insultare gli italiani, mai, non solo perché mi sento ancora ospite in questo paese, ma perché se muore l'Italia, probabilmente muore anche tutto il resto, perché siamo tutti di fronte ad un unico enorme burrone e non ci sarà alcun padre a prendersi cura di noi quando piangeremo da soli su un sentiero pericoloso ad un'altezza dimenticata persino da dio.


p.s. Nel mio bagno vive un ragno, l'ho chiamato Sisifo perché ogni volta cade nella vasca e nonostante tutte le fatiche non riesce ad uscire. E' bellissimo e spaventoso, ha veramente un aspetto agghiacciante, ma nella vasca sembra solo una creatura storpia e fuori luogo, indifesa e fragile. Sisifo, cazzo, qua la mano.

p.p.s. Martedì sarò in un altro continente, nel mio continente. Martedì sarò nel deserto.



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